Sab. Apr 12th, 2025

”Itaca Ebbra” di Bia Cusumano

di Ester Monachino

Si esce col cuore in tumulto dalla lettura dei versi di Bia Cusumano “Itaca Ebbra” (Interno Libri edizioni) o forse non se ne esce, non si può. E più non si sa se i versi sono rimasti in te o tu in loro.

Versi ubbidienti alla sincronia d’immagini e parole, pienamente nel senso interiore di ciò che detta, di ciò che è profondamente sentito.

Così è che i versi escono dal sole e dall’ombra a dire di una dualità che in se stessa vive, ribelle e pure bisognosa di essere, possibilità e impermanenza.

Itaca non è geografia d’una terra circoscritta, non è equinozio d’anima, è vertigine dove è possibile smarrirsi, è luce che si accende e si spegne, è caleidoscopio di presenza e assenza, di abbandono e del ritrovarsi.

Dimenticanza e ricordo: ecco, nell’interiore spalancato su questo segmento-abisso, la macerazione che fa del poeta “un veggente ferito” (pag. 46), perché consacra il sé nell’assoluto sacrificio (pag. 20), nell’azione sacrificale della comprensione di una verità che non è nella ragione (pag. 444) ma nell’intrinseca rinascita, nella bellezza che “va custodita/ in gran segreto” (pag. 29).

Ancora dualità: oblio o ricordo? Permangono entrambi: nel ricordare, nel ricondurre la memoria alla presenza del cuore, qui, dove la vista non si perde ma diventa punto in cui tutto si ritrova.

Ed è qui, nel cuore, nella sua essenza, che la cenere riprende vita, s’arrossa, s’infiamma di nuovo fuoco creativo, ritorna visibile e brilla del cuore simbolico dell’uccello fenice, ampio d’ali per universi conoscibili e percorribili, metafora di un ulisside periplo infinito. 

“Sono la donna della cenere/ e delle mille vite” (pag. 48).

“Nell’atrio tra le frondi/ canto di cenere e saliva” (pag. 55).

In ogni istante, pertanto, il poeta ha un lasciapassare per la fenice che è la Parola: non quella quotidiana, lacerata e implacabile, ma quella essenziale, semprenuova e semprevera, parola alata che s’intrama nella carne e che conduce altrove, nell’Itaca ebbra: “Angelo di/ bellezza ferita/ giudizio sospeso/ mistica carnale” (pag. 57).

Grande forza creativa nella sezione “Itaca ebbra”, dove si ha il sentore di avere raggiunto l’ordine delle cose profonde, dove niente è banale ed ogni movimento tra il ventre e il petto diventa intelligibile, terra penetrata da sguardo consapevole dei dilemmi, delle assenze e delle presenze, dell’amore che pure permane sempre tra le sue sponde in questo “sigillo sacro” (pag. 62) inciso a fuoco e che neppure l’abbandono può mai rendere nullo e inesistente.

Itaca è verità d’anima: non importa se è nella gioia o nel tormento: semplicemente è, e qui si resta nell’esserci perché, dove si sta, necessariamente si è:

“A Itaca resto, altera regina d’incanti e prodigi./ Il mio cuore non conosce inganni…” (pag. 62).

Invero, un cuore che scrive è un barlume e, poi, una fiammata di rinascenza.

E’ vero: è rinascita l’amore nella sua sempre eterna presenza: “Ripeti addio ogni ora e io sarò tuo in eterno./ Perché ci sono addii che tornano dagli abissi sperduti/ capovolti ti amo./ Addio, Penelope, amore che non conosce fine” (pag. 63).

Amore come a-mors. Immortale. Eterno. Presenza. Vitale. Linfa d’una passione mai estinta, sotterranea ed essenziale.

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